Avvertenza: I paragrafi che seguono sono appunti, pezzi incompleti, a volte si ripetono delle cose, non sono perfetti e mantengono tutta la confusione che ho in testa in merito a questa vicenda. Li condivido semplicemente a testimonianza di storie raccolte e di retroscena, per dare contesto ulteriore alla storia di cui stiamo parlando.
Cominciare questo pezzo è difficile. Perché è un pezzo che parte da un fallimento. E quando qualcosa va storto, iniziano a circolare domande che si allargano sempre più e travolgono tutto. Non mi atterrò dunque alla cronaca, per quella ci sono giornalisti e programmi dedicati: nei giorni scorsi testate e televisioni anche nazionali hanno dato dettagli in merito all’evento di cui parlo. L’annuncio della chiusura di SAGA, uno stabilimento industriale qui nell’Appennino dove sono nata e in cui vivo, tra Bologna e Pistoia. Una notizia come un’altra, si dirà: sono decenni che sentiamo di proteste che arrivano da lavoratori di aziende che minacciano (e poi sistematicamente realizzano) chiusure e licenziamenti. Numeri. Quelli che fanno davvero girare il mondo per com’è impostato e che non tengono mai conto delle persone che ci sono dietro a quei numeri.
Nemmeno tutti i numeri sono uguali. In una realtà spopolata come la nostra, il licenziamento di 220 persone fa la differenza. Tanto che tutta l’area è all’erta: la filiera economica, certo, ma anche quella sociale sente che il vento che batte forte in queste ore arriva nelle ossa più a fondo di quanto non si creda.
I sindacati (FIM e FIOM) hanno organizzato un presidio dal giorno seguente alla comunicazione della chiusura, il 5 novembre scorso. Non è la prima volta che mi trovo ad andare a un presidio di fabbrica.
Nell’inverno a cavallo il 2015 e il 2016 la nostra associazione SassiScritti seguì quello davanti allo stabilimento di Philips-Saeco, a Gaggio Montano (BO) per 73 giorni. Organizzammo un cartellone di eventi culturali per fare compagnia agli operai, al quale vennero come ospiti – a loro spese e a titolo gratuito – alcuni artisti e amici da varie parti d’Italia. Qui il resoconto di quell’esperienza:
http://www.sassiscritti.org/2015/12/15/poesie-per-farsi-coraggio-un-presidio-culturale/
Come andò a finire? La maggior parte dei dipendenti in esubero, nel 2017 ha accettato l’incentivo ed è andata a casa, cercando altri lavori. Una piccola parte è stata assorbita da un’azienda chiamata MEMO, che doveva riqualificare gli operai e assumerli, pare sia naufragata non appena finiti i finanziamenti. Attualmente, dei 243 esuberi annunciati da Philips nel 2015, gli assunti in MEMO sono una decina o poco più. https://www.bologna2000.com/2021/06/24/vertenza-memo-di-gaggio-montano-raggiunta-lintesa-per-lutilizzo-degli-ammortizzatori-sociali-e-il-diritto-alla-ricollocazione-dei-lavoratori/
L’esperienza del presidio fu molto impegnativa e intensa. Si respira, in un presidio, un’atmosfera che non ho mai respirato altrove. Certo, c’è preoccupazione, paura, ma anche qualcosa di molto vitale, attivo, pieno di grinta e solidarietà. Qualunque cosa accada, non è esente da critiche, di solito da parte di chi non partecipa. Noi vivemmo il calendario di eventi condividendo per la prima volta cose che riteniamo belle e preziose con persone che non le conoscevano, e che hanno dimostrato di apprezzarle. Ridendo, pensando, piangendo a volte. Provammo anche una certa amarezza, quando un allora rappresentante FIOM ci disse che potevamo anche smetterla di volerci far notare. Non capiva, sinceramente, cosa volessimo dimostrare con il nostro essere lì.
All’epoca la cosa ci depresse molto, perché l’intento era di essere solidali. Di dire che forse noi, come associazione e come artisti, non subivamo meno ingiustizie di loro: che li capivamo. Che i nostri mondi si potevano parlare. Si dovevano parlare, forse. Perché alla base c’era la stessa miopia politica, la stessa codardia, la stessa ingordigia, la stessa malafede che stava rovinando o quantomeno complicando la vita delle persone di entrambi i mondi e dell’intero pianeta.
Quando è passata la notizia dell’attivazione di questo nuovo presidio, in Associazione ci siamo chiesti cosa fare. Questa volta, ci siamo detti, forse la cosa migliore è ascoltare. Non portare contenuti ulteriori, ma semplicemente esserci, stare lì e parlare con le persone. E raccontare a nostra volta. Usare le parole per ribadire che le persone contano più di qualsiasi numero. Utilizzare gli strumenti che abbiamo (pensiero, scrittura, possibilità di divulgare fuori dalla cronaca dell’emergenza) per sottolineare il nostro NO. Ci sono cose giuste e cose sbagliate. Chiudere uno stabilimento in attivo per delocalizzarlo e pagare meno altri operai in un altro posto del mondo risponde a una logica sbagliata. Siamo troppo pochi per cambiarla? Non siamo nessuno? Siamo divisi? Siamo impotenti? Siamo egoisti? Siamo conniventi perché ordiniamo su Amazon o compriamo le cose in saldo nei centri commerciali? Prenderci sempre la colpa di tutto, be’, anche basta. Questo non significa non prendersi le proprie responsabilità o non essere critici verso la propria condotta di vita. Ma deve restare aperta la possibilità di dissentire. Di dire che se pochi hanno moltissimo e tanti hanno quasi niente, e che quei pochi non hanno nessuna possibilità di contrattazione, allora la regola va cambiata. E qualcuno deve vigilare.
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Tra gli anni ‘80 e ‘90 la ditta chiamata Saeco aveva qui in Appennino l’importanza che può avere a Maranello la Ferrari. Agli inizi del Duemila erano impiegati nella fabbrica circa 3mila persone. Il bacino complessivo della nostra valle è di circa 20mila persone. Almeno una persona in ogni famiglia era dipendente Saeco. A volte, famiglie intere. Se Saga (un pezzo di Saeco acquisita nel 2019 dalla multinazionale Évoca) chiuderà come avvisato il 5 novembre scorso, i dipendenti rimasti attivi saranno complessivamente 300. Ma questo pezzo non vuole stare sui numeri. Vuole stare con le persone che sono dietro a quei numeri.
Arrivo al presidio con Alessio. È il papà di una bambina che va nella scuola di mia figlia, e lavora all’ufficio vendite di Saga. Mi presenta Tony mentre siamo davanti alle macchinette del caffè (mi dice che le cialde le ha regalate Caffitaly, l’azienda che le produce qui vicino e che conosco bene perché tutti conoscono qualcuno, qui, che lavora in Caffitaly). Tony è un uomo alto, robusto, sui quarant’anni; insiste perché tutti sotto il tendone portino la mascherina correttamente. Gli chiedo cosa fa in fabbrica. Come molti, ha coperto un sacco di ruoli, poi ultimamente magazziniere e anche trasportatore, perché ha preso la patente speciale quando era in Saeco. Gli vedo solo mezza faccia, ma gli occhi parlano chiaro. È stanco, preoccupato. Dice che ha appena acceso un secondo mutuo, che ha due figli ancora piuttosto piccoli, che sia lui che sua moglie lavorano lì. Mi faccio raccontare un po’ di storia dell’azienda, che confina molto con la sua, di storie: entrato in fabbrica a vent’anni, ha visto tutti i vari smembramenti, vendite, acquisti. Gli chiedo cosa pensa che succederà adesso. Dice che lui spera che l’azienda venga acquistata, ma non crede sia così facile. Conferma quello che Alessio mi ha spiegato nei giorni scorsi, che Évoca, la multinazionale che ha acquistato questo capannone e il suo contenuto (operai compresi) da anni sta acquistando aziende concorrenti nel campo delle macchine automatiche, per poi chiuderle e delocalizzarle. Capito, Évoca? Con una battuta ho detto che Évoca evoca brutti spettri. Abbiamo riso un po’, hanno detto è vero. Chiedo a Tony se avevano avuto sentori di questa chiusura e lui risponde che non avrebbe acceso il mutuo meno di un anno fa se fosse stato così. Però, mi dice, nelle ultime settimane quelli del magazzino avevano avuto dei sospetti, perché i responsabili chiedevano di produrre al massimo, superare le quote standard, e poi portavano via tutto. Perché portano via tutto, si chiedevano. Certo, il magazzino di smistamento è a Bologna, ma la cosa destava comunque un sentore di problema. Hanno svuotato tutto. Non solo i prodotti, ma gli stampi, i materiali. E, naturalmente, i brevetti. Ne parlo con Catia, lei era tra quelli che dovevano mandare via la roba. C’era qualcosa di strano mi dice in tutta quella fretta di produrre e mandar via. Mi colpisce questa cosa. Perché se ci pensiamo è proprio infame: tenere all’oscuro di ogni vero progetto, e far lavorare gli altri contro il loro stesso interesse. Adesso, il capannone è una scatola vuota, conferma Alessio. Anche se avremmo le competenze per continuare a produrre le macchine, non possiamo farlo in nessun modo. E la nostra era una delle poche aziende del gruppo ad essere in attivo. Le nostre macchine funzionano, vendono, sono di qualità. Catia dice che a lei dopo essere stata in linea tanti anni era felice di fare la magazziniera, e intuisco così che sia un ruolo piuttosto ambito in fabbrica. Mi spiega che è variato, che puoi fare tante cose, che usi molto la testa per tenere i codici e gli ordini, che puoi parlare con gli altri. Che si sentiva bene. Cosa vorresti che succedesse? le chiedo. Ora vorrebbe solo poter lavorare, perché è separata con due figlie. Ha quarantasette anni e da quando ne ha diciannove lavora in fabbrica. Se riconvertono le andrebbe bene qualsiasi cosa, ma anche fare i tortellini (ride). Si aggiungono altre voci, di donne che sono nel capannello con noi: guarda che ci sono anche di più vecchie! Cinquantasei, dice una signora dagli occhi azzurri; cinquantotto, si aggiunge un’altra.
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La maggioranza degli operai che stanno rischiando di essere licenziati per la chiusura della fabbrica SAGA a Gaggio Montano, sull’Appennino bolognese, ha intorno ai cinquant’anni.
Ho parlato con Tony, del 1983, e mi ha detto di essere uno tra i più giovani. Donne, molte donne. Ho parlato con Catia. Con Carla. Con Laura, il cui marito era uno degli esuberi della Philips-Saeco per cui abbiamo frequentato il presidio nell’inverno tra il 2016 e il 16. Con Mariella e diverse altre, persino con una mia ex compagna di scuola, Katia, che non vedevo da quasi trent’anni perché lei lasciò al terzo anno e poi la vita va per le sue strade. Ho chiesto loro cosa sperano: la risposta è sempre la stessa. Sperano di lavorare. Perché il lavoro ci sarebbe anche, l’azienda era in attivo, una delle poche del gruppo Èvoca, a quanto sostengono gli operai e gli impiegati. Ma la multinazionale ha svuotato tutto, portato via brevetti, stampi, prodotto in gran furia un alto numero di macchine e poi via. Verso posti come la Romania dove il lavoro, lo stesso lavoro, di persone come Tony e Carla e Laura e Catia costa un quarto.
Nel mondo del giornalismo gran parte di queste persone sono la cosiddetta Generazione X. Quella che dicono la più fregata di tutte. Era evidente a trent’anni, che qualcosa nei piani del grande progresso del mondo fosse andato storto. Vogliamo metterlo come un problema tra generazioni? Mah, non è neanche così, perché gli interinali piú giovani che qui al presidio ci vengono poco o niente, come di fatto erano solo di passaggio al lavoro, diciamo che non se la passano meglio. Anzi, va sempre peggio. Ma, dicono alcuni, quelli nati nei ’90 e nei Duemila sono abituati, sono nati flessibili. Si sanno adeguare, hanno un’altra testa. Sarà.
Ma torniamo alla questione degli operai rumeni. Non lavorano meglio, non lavorano peggio, probabilmente: lavorano costando meno. E questo non perché lo stipendio di un operaio italiano sia alto, bensì perché le tasse che ci si pagano sopra lo sono, e perché la vita qui ha costi più alti in generale. Cosa deve dunque fare un buon amministratore, assunto per far guadagnare l’azienda? Affinché possa tenere il suo posto, deve far dei conti e spesso questi conti non tengono presente che ci sono delle cose che non sono misurabili.
Il legame delle persone con la propria terra. Il legame delle persone tra di loro. La soddisfazione di fare qualcosa di eccellente nato e cresciuto nello stesso posto dove sei nato e cresciuto tu. E tante, tante altre cose che sarebbero poi quello che fa bello stare al mondo.